Aiace, storia di un uomo come tanti

Pubblicato il 20 aprile 2012 su “Caffè Letterario di Maria Cristina Brizzi”
in Bologna / Blog del Corriere della Sera

Io mi chiamo Luca, e di cognome faccio Aiaci; come dicevano i Romani? nomen omen? Ecco, io ci ho pensato più volte, di avere la mia condanna scritta nel cognome, e, per traslato, nel DNA.

Ho studiato informatica all’università, ma uno straccio di maturità classica l’ho anche io; la storia di Aiace, poi, mi ha fatto impressione fin da ragazzo. Aiace, sì, quell’eroe greco sempre in secondo piano, quello che sarebbe stato il più forte di tutti se non ci fosse stato Achille, ma Achille c’era e ad Aiace restava la parte del comandante di riserva; un giorno il Pelìde muore, era ora, e Aiace si prepara tutto contento ad ereditare il suo posto, la sua gloria, il suo successo, era una vita che aspettava. Invece no, naturalmente; arriva quel grandissimo figlio di buona donna di Ulisse –Dio quanto mi è sempre stato sulle palle, quel furbastro, quel leccapiedi degli dèi, che cadeva sempre in piedi e riusciva a far girare le cose sempre a suo vantaggio!- e con uno dei suoi soliti trucchetti infarlocca tutti, divinità e uomini, e il posto di Achille, le sue armi, la sua visibilità, se li prende lui. Aiace, -Cristo! Come lo capisco!- va fuori di testa, comincia a urlare tutte le ingiurie che fino a quel momento si era tenuto nel gozzo, dà la stura ai suoi vent’anni di frustrazioni. Un fiume in piena che gli esce dai nervi, deborda, inonda; una spada ce l’ha tra le mani, la sa usare, la usa.

Si vendica. Uccide. Uccide tutte quelle facce da culo che gli avevano sempre detto, tu la pensi così ma adesso andiamo a chiederlo al tuo capo.

Ma per il povero Aiace non c’è riscatto. Questi dèi senza benevolenza gli hanno segato gli artigli prima che potesse fare danni ai loro piani. Lo fanno sbagliare, capito? Lui crede di ammazzare i Greci, i suoi compagni aguzzini, responsabili della sua vita di umiliazioni; invece no!! Sono pecore! Su un branco di pecore puzzolenti si è vendicato!!

Aiace, si chiamava, e già la mitologia greca ironizzava su quell’ Ai! di malaugurio che dava inizio al suo nome.

E io, Aiaci, mi chiamo, accidenti.

Forse voi donne non potete capire. Voi non sapete cosa sia la solitudine. Quante volte ho ripensato a quell’ Aiace lì, che era tanto abituato a esser solo che alla fine uccide le pecore come fossero uomini, perché gli uomini non se li ricorda più.

Io sono un uomo solo. Sono solo da sempre, e non ne posso più.

Un momento, non è come può sembrare. Ho moglie e figli, un lavoro normale, una vita che forse molti invidierebbero. Dicono anche che sono un bell’uomo. Non vivo ai margini, anzi, probabilmente do anche l’immagine dell’uomo di successo. Ma anche Aiace aveva tante frecce al suo arco, dentro e fuori di metafora. Secondo me, però, anche lui si sentiva solo.

Perché, caro mio, ti senti solo come un cane quando ti impegni, fai le cose per bene, sei tutto teso alla buona riuscita, ce la metti tutta; alla fine, sai di aver fatto un buon lavoro, anche eccellente, sai di meritartelo, questo podio, per una volta; e invece no, invece c’è sempre quell’Achille del cavolo che ti dice che sì, che non è male, ma che lui avrebbe fatto in un altro modo –poi, vuoi sentire l’ironia della sorte? Achillini si chiama, il mio capo!-; poi tutti i colleghi, gli stramaledetti Greci della situazione, che mi guardano con un’aria di indifferente sufficienza, come dei don Abbondio fatti in serie, con lo sguardo da “perché non hai saputo essere tu il più forte? Chè io sarei stato dalla tua parte..”

E io mi sento solo. Il livore mi riempie il cuore e cresce ogni giorno di livello; il fiele mi avvelena il sorriso, e intanto Ulisse si scava le trincee dei suoi futuri privilegi, Ulisse, quel ruffiano del mio collega sempre pronto a far salotto, ad offrir l’aperitivo all’amministratore delegato, insinuando così l’idea che è merito suo se il progetto è andato in porto, che è a lui che devono andare le armi, ossia la sedia, di Achillini, quando questo farà il santo piacere di andarsene in pensione.

E io zitto. Guardo, torvo, queste mene. Non sono capace, io. Non ce la faccio, ad andar dal segretario generale e a dirgli come sta sua moglie, che lo sanno tutti che è una zoccola, non ci riesco a dire ad Achillini che da quando c’è lui l’azienda va come un orologio, me lo leggerebbe negli occhi che penso che sia un pirla. Allora sto zitto. Allora sto da solo.

E poi torno a casa, da quelli che mi vogliono bene. Non vedo l’ora, capisci? Non vedo l’ora di vedere mia moglie e i bambini.

Ma quando arrivo, mia moglie è al telefono; o con sua madre, o con la sua amica. Io, di nuovo al secondo posto. Dall’altro capo del filo, un Achille qualsiasi mi nega l’armatura da eroe nel cuore di mia moglie, e i Greci ricominciano a ridere.

E io mi sento solo. E da soli non si riesce a giocare, a godere, si può bere però.

Bene. Non voglio mica mettermi in ginocchio per quell’armatura. Penso, sì, lo penso, che prima o poi il mio fiele romperà gli argini dell’autocontrollo. Sto cercando dappertutto un gregge di pecore da sterminare, potrebbe essere una squadra avversaria, ma non sono uno sportivo; potrebbe essere il cuore di una giovane amante, ma io sono un uomo fedele. Vedi, proprio come Aiace, pieno di buone qualità, di grandi valori; ma sembra che non freghi niente a nessuno. Vedo sempre più gente che si rende indispensabile proprio grazie alle qualità negative e ai disvalori.

E mi sento solo, Dio santo.

Mah, un eroe… eroe è un termine che va indagato nel suo significato. Non è che voglia dire che io lo sono, per carità; ma non mi sembra, sai, che si possa dire che uno è un eroe perché a distanza di anni se ne continua a ricordare il nome. Che  eroi erano Hitler e Stalin? O quel megalomane di Napoleone, col suo mezzo milione di morti di freddo sulla coscienza, partiti per la Russia come vittime immolate alle ambizioni dell’Empereur? No, no: l’eroe io non lo vedo così. Io credo che in certi momenti sia proprio il resistere sul campo, l’andare avanti anche quando ti sembra di non concludere niente, l’ingoiare il tuo fiele quotidiano senza nessuno che capisca quanto è amaro, il vero eroismo; quello che Foscolo chiamava, mi sembra, “la virtù sconosciuta”.

E dimmi se tu non ci hai mai pensato: l’agente 007 sarà anche eroico, ma non è difficile, due minuti vissuti pericolosamente, una missione estrema, salvare l’umanità da Goldfinger, e poi giù, pezzi di gnocche da paura, champagne e visibilità. Fantozzi, invece: la Mazzamauro che non gliela dà, la signora Pina che lo aspetta nel letto, la figlia sfigata, l’affitto e la corazzata Potemkin al posto della finale dei mondiali; e lui va avanti, capito, lui non si dà per vinto, lui ci torna tutte le mattine nel suo buco di ufficio, lui paga le sue rate del televisore. Ma se il mondo va avanti, è perché ci sono i Fantozzi che stringono i denti; perché in fondo Goldfinger non fa paura a nessuno, ma la quotidianità sì, quella ti uccide, e quel che è peggio è che ti uccide mentre sei ancora vivo.

Io  mi sento proprio così, un combattente. Te l’ho detto, è facile andare a combattere contro Goldfinger, contro Ettore e le sue schiere, contro il vietcong assetato di sangue. Te la giochi in un’oretta: o la va o la spacca. E se la va, tu sei il vincitore, l’eroe, lo strafigo.

Io, io Luca Aiaci, sto facendo da anni una estenuante guerra di posizione, me ne sto nella mia trincea merdosa sulla linea Maginot. Se colpisco il nemico, nessuno, nemmeno io saprò di aver vinto, di aver fatto centro, di aver contribuito alla vittoria; intanto passo il tempo ad aspettar pallottole, a cercare di fumare di nascosto. Intanto, per non impazzire, cerco di tener pulita la mia fossa, che se no si riempie di pulci e di topi. Tengo alla mia divisa, la lavo tutti i giorni: è un modo per sentirmi vivo, per non cedere alla voglia di morte, che spesso ti seduce più che questa vita.